Furio Galli

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Siamo un arcipelago composto da miliardi di isole, dove la parte più importante è quella sommersa : il fondale che ci unisce tutti, silenziosamente. Non è facile vedere quel fondale, più semplice mettersi sulla spiaggia della propria isola e urlare, urlare, per diventare visibili, per essere qualcosa. Le distanze si accorciano se si urla, ci si sente più vicini, ci si può quasi toccare, far vedere che la propria isola è più accogliente, lo spazio tra le isole si riduce, piano piano, sempre di più.
E non si respira più, non ci sono più suoni, il rumore delle urla è talmente forte che non senti più la tua voce, non c'è aria per propagare niente che non sia già detto, lo spazio si riduce, ogni isola assomiglia all'altra.
E scende il silenzio dell'omologazione, del sentire comune, del pensiero conforme. I vagoni della metropolitana al mattino sono pieni di persone, che scendono le scale di fretta, avvolti da mille pensieri, doveri, cose da dimostrare, libri da imparare a memoria, esami da sostenere, giudizi da evitare....e non si sente una voce, nessuno parla, ognuno è perso nelle cuffiette che porta alle orecchie, nel libro che sta leggendo, nello smartphone che sta interrogando, come una finestra su di un mondo lontano, desiderato, ma sfuggente.
Ricordi, fotografie, filmati e canzoni tutti nello stesso momento, a portata di mano, ad aggiungere rumore al rumore, tanto che nessuno più parla con chi ha accanto, come se fossero fantasmi di un mondo lontano.
Amici virtuali, sms auguranti buone giornate, mosaici di cocci di bottiglia che puoi solo calpestare, sono rapporti infranti, che non nasceranno mai, oppure moriranno nelle pieghe di un tempo che manca sempre.
Il rumore della metropolitana è lo stridere delle ruote sui binari, il colpo d'aria che entra dai finestrini mentre i vagoni rasentano il tunnel, l'apertura delle porte automatiche, testimonianza di tutto quello che ci circonda ma che, in fondo, è dentro di noi.
La convenienza, la velocità, la comodità ha un prezzo, basta che ti fai trascinare via insieme al rumore, al caleidoscopio di una vita piena di falsi desideri, di situazioni imposte, di regole comuni, di buonsenso piccolo borghese. Fai così, trascinati ogni giorno con leggerezza, fatti trasportare dalle cose che tutti facciamo, goditi questo rumore avvolgente, è tutto ciò che ti serve, sei nel Tempo giusto, il Tempo degli altri.
Una sola fermata di metropolitana serve sempre a vedere la frattura che esiste tra governare il proprio Tempo e subire il Tempo, entrando in un tunnel sferragliante per sempre.
La piazza è ancora vuota, è mattina presto e l'ingresso al Cenacolo è ancora sbarrato. In Corso Magenta la fila delle auto e dei tram produce un rumore continuo, isterico, persone bloccate vorrebbero già essere altrove, c'è sempre qualcosa da fare, lavori da eseguire, commissioni da incassare.
La basilica di Santa Maria delle Grazie è silenziosa ed in penombra, l'unica luce arriva dalla navata di sinistra, dove in una cappella si celebra la Messa. Il suono della liturgia è come una nenia, ha un sapore antico, la luce delle candele si diffonde fino all'altare, lambisce delle figure sedute sulle panche oppure in piedi, pare che abbiano le mani giunte e guardano verso un punto indefinito, sotto la cupola del Bernini.
L'altra luce presente è sul fondo della basilica, dove si apre il portone che fa accedere al chiostro, uno spazio senza Tempo, dove il rumore di Corso Magenta non arriva, non supera le volte del porticato, gli alberi che fioriscono a primavera. Bianchi, i fiori sono bianchi, ti puoi sedere e sentire il silenzio, l'unico rumore è quello dell'acqua che esce dalla bocca delle quattro rane di bronzo della fontana. Un rumore continuo, un rumore gentile.
Oltre il chiostro c'è via Caradosso, se segui il marciapiede di sassi e tieni la sinistra vai in una piccolissima via che costeggia il chiostro, c'è un ingresso carrabile stretto, si passa tra due muri di mattoni rossi a vista. Una strada fatta mille volte, la basilica, il chiostro, la stradina, stringendo la mano di mia madre.
Dentro si apre un piccolo giardino con qualche albero d'alto fusto che nasconde la facciata di quello che un tempo era un ospedale. Davanti all'ingresso sono state piazzate delle sedie con i cuscini dai colori brillanti, un vecchio dondolo sta vicino a dei tavolini da caffè, tutto è pronto ad accogliere gli ospiti più mattinieri, come nei giardini davanti agli alberghi economici della riviera romagnola.
Nell'ospedale in cui sono nato ora ci muoiono le persone anziane, probabilmente quando si siedono sul dondolo sentono il rumore del Mare, dimenticano di essere in un ospizio, annullano il loro Tempo. Il convitto in cui Wanda aveva la sua stanza è chiuso da un muro di assi di legno, tutte le tapparelle sono abbassate e l'ingresso è sbarrato. Wanda ci andava a dormire quando aveva i turni di notte, bimbi da far nascere alle ore più improbabili. Ci teneva due pistole berbere con il calcio di madreperla, alcuni libri di poesia di Mishima, il campanello shamisen che si era portata da un viaggio in giappone. I campanelli giapponesi suonano al vento, hanno una striscia di stoffa che muove il batacchio appena c'è un refolo d'aria.
Wanda mi diceva che a Milano non sentiva lo stesso suono che c'era in giappone, che l'aveva fatta innamorare di quei campanelli, non era la stessa cosa. Viaggiava molto, sempre con le sue amiche, era lesbica ma a me sarebbe piaciuto che lei fosse mia madre, non la caposala del reparto maternità dell'ospedale Principessa Jolanda.
Quando stavo con lei viaggiavo con lei, bevevo il the nel deserto con gli Uomini Blu, salivo il Kilimangiaro, bevevo Sakè e mi sembrava di fumare insieme a lei una delle tante sigarette che si infilava compulsivamente tra le labbra. In fondo il Vento di Milano non l'ha mai accettata, il suono del suo campanello era più libero in giappone.
Il sole si alza un poco ed ora, tornando indietro, le figure dentro Santa Maria delle Grazie sono più nitide : sono donne giovani, tengono le braccia conserte oppure si tormentano le mani, muovono le labbra ma non si sente alcun suono, forse le loro parole sono fatte per essere udite solo da qualcosa o qualcuno che abita nel fondale, quella cosa che dovrebbe unire l'arcipelago umano.
Ma, probabilmente, se sono qui, pregano perchè non siano risucchiate dal Rumore che impazza a pochi metri da qui, che le vuole trascinare con sè. Sono l'unico italiano del gruppo che accede al Cenacolo, la maggioranza giapponese si fionda il più vicino possibile all'Ultima Cena, proferendo urla di meraviglia nel modo più silenzioso e garbato che possono.
Io non guardo mai l'Ultima Cena quando entro nella stanza del Cenacolo, giro a sinistra e guardo l'enorme affresco sull'altra parete, poi quando arrivo quasi in fondo alla sala mi volto e resto lì, fermo, in penombra, a vedere da lontano. L'Ultima Cena è un simbolo di perfezione e di bellezza unico al mondo, sono stati scritti libri analitici ed anche date versioni di Mistero, come se fosse una porta su di un altro universo.
Per me L'Ultima Cena rappresenta anche e soprattutto la Trasformazione. Nulla sta fermo, nulla è immutabile, il Tempo è un concetto relativo. Su quel muro ormai c'è poco di quello che Leonardo ha dipinto 500 anni fa, c'è la sua Idea, il suo marchio, il suo Genio, ma il dipinto NON è immutato, era praticamente sparito, i colori sciolti, anneriti, varie volte è stato "restaurato" e quindi TRASFORMATO, simile all'origine, ma non originale. Nemmeno un'icona così è ferma, tutto cambia, si mischia, si evolve.
Cambia.
Le cose cambiano.
Guardando da lontano l'Ultima Cena, proprio al centro, sopra al Cristo, si vede la prospettiva di Leonardo che disegna una V, le tre grandi finestre si aprono verso l'esterno, il paesaggio illuminato dalla luce del crepuscolo. I colori delle sfumature del Cielo, dal blu oltremare al bianco titanio, aprono la vista, ma allo stesso tempo risucchiano tutto ciò che sta nei tuoi occhi :
il viaggio in metropolitana, il traffico, il rumore della vita imposta, le regole definite, la penombra della basilica, il silenzio del chiostro, l'ospedale dove sono nato, la strada fatta mille volte con mia madre, le visite da solo a Wanda, l'ospizio, il vecchio dondolo e tutto quello che sono stato, tutti quelli che ho conosciuto, tutti quelli che sono passati di qui, tutto si fonde in un solo momento, una sola Storia, un solo Tempo : l'Eternità non è un Tempo allungato all'infinito.
All'uscita del Cenacolo sono state messe delle panchine, nel cortiletto interno. Sono le otto e mezza ed i bambini della scuola elementare attigua stanno per entrare in classe, probabilmente si apre il portone in quell'istante e il giardino viene invaso da un Rumore, questo sì senza Tempo, il Rumore della meraviglia, della voglia di vivere : sono i bambini che urlano come solo loro sanno fare, all'entrata ed all'uscita della scuola urlano tutti insieme, di gioia.....
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAh e l'urlo si smorza nelle rampe di scale, sparisce in pochi secondi. Ho preso apposta la metropolitana, avrei potuto andare a piedi, ho percorso apposta Corso Magenta,sono entrato nella basilica, nei miei Luoghi dell'Anima perchè cerco ogni volta un Momento, un Istante, quello di stare di fronte ad un muro dipinto guardando l'Eternità, l'eternità che è in me, che sta in un urlo di meraviglia, di voglia di vivere senza cornici.
Il venditore ambulante nella piazza di Santa Maria delle Grazie continua indifferente ad intonare il suo mantra :

three postcards
one euro
three postcards
one euro


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